sabato 29 marzo 2014

RACCONTI GARGANICI

Due racconti con sfondo garganico di Gianfranco Pazienza


VOLI ASCETICI

Alla terza notte di luna piena, quando la Valle Campanile è ancora ben rischiarata, il frate dell’eremo del mulino si incammina portando per l’occasione il pane appena sfornato e altre provviste.

Lì, sotto la màcina in pietra, sfarina il grano cresciuto nella terra portata a piccoli pugni, adagiata sulla roccia terrazzata, da noi coltivata in fiorenti “orti di vita”.
E da qui, con ancora gli aromi dei semi mescolati al profumo dei fiori e delle essenze, diverse in ogni stagione di cui si veste la valle, la farina ritorna sostando di eremo in eremo.

Come ogni notte giunge dal monastero di Pulsano il consueto coro di anime: vagano con i can­ti gregoriani dell’ora mattutina, mescolandosi alla fragranza di quel cammino.

Sotto il carico della bisaccia con il passo lento va su e giù lungo i sentieri inerpicati alla roccia, segue gli scalini scavati dal ruscellamen­to della pioggia e dal nostro lento, meditato, faticoso lavoro. Porge la riserva alimentare scambiandola con un sorriso e timidi sguardi, quasi ciechi: tacita preghiera di quel mattino in attesa della prossima, per altri due mesi di autonoma sopravvivenza.

Quel gesto semplice e generoso si rinnoverà ogni qualvolta visitere­te questi luoghi, ripercorrendoli con passo incerto.
Anche voi affidere­te agli sguardi la gioia dell’altrui esistenza ritrovata e cercherete, con le mani protese a sfiorarsi, il sostegno nel cammino per elevarvi allo spirito che qui aleggia.
Con il sorgere del sole il suo pellegrinare prosegue indicato dalle ombre proiettate sulla falesia di dolomia, solcata dall’acqua come fa il sudore sulla fronte: sono le rughe del tempo e della fatica che caratte­rizza la valle degli eremi, rivestita di un’unica epidermide pietrificata, nel contempo porosa e vellutata.
Se incisa con un punteruolo è facile lavorarla per decorare gli altari e affrescare le pareti delle nostre po­vere dimore.

Già dal mattino la processione di ombre appare con la basilica di San Michele, poi con l’eremo del mulino, a mezzodì è la volta dell’ere­mo della rondine, al tramonto, quando lì arriverà, apparirà nell’ombra di tutto il complesso monacale di Pulsano.

In quella sequenza a noi familiare, immaginiamo la gioia e la soffe­renza di ognuno proiettata nella vita altrui. 
Difatti solo al nostro frate dell’eremo del mulino – siamo grati per l’immane fatica a lui destina­ta - è dato di conoscere i volti di ciascuno. 

È la regola: ogni due lune può lasciare il suo giaciglio per farci visita, ridistribuendo gli alimenti che da noi riceve, tenendo per il suo fabbisogno. In questo scambio di provviste io gli affido una stoppella di grano e, per questa stagione, un canestrello di fichi seccati al sole. Anche il miele è già pronto, le man­dorle la prossima volta.
Dagli altri confratelli riceverà le fiscelle con le caciotte di latte di capra. All’eremo della rondine, prenderà un tomolo di buon grano; quel terrazzo sull’orrido è il più impervio sovrastato però da un terreno coltivato ben più grande, dove riesce ad allevare anche alcune pecore, producendo un prezioso formaggio.

In questo modo la rete alimentare si dipana dal mulino, raccontan­do delle nostre vite: se mancherà il pane o il formaggio, o le mandorle, sarà stata la carestia o il sonno della vita eterna a portarci via.

Questa è la vita nella valle degli eremi dove ogni ora scandisce i gesti consueti e attenti con cui ciascuno cura il suo piccolo altare, oppure coltiva gli orti vitali della nostra comunità dispersa, sotto la protezione di enormi sagome tremule che volteggiano proiettate sulla falesia.

Utile presen­za di una coppia di capo vaccai: già dal mattino iniziano come spaz­zini a visitare le carcasse di animali abbandonati, cacciano serpenti e roditori, tengono pulita la valle e proteggono i nostri raccolti. Mentre il lanario, silenzioso sembra inseguire l’eco delle preghiere come a vo­lersene nutrire, sospinto dalla corrente d’aria calda rotea tra le pareti spaventando gli animali che abbeverano nelle pozze del fondovalle.

Da sempre qui l’ingegno più importante è dedicato a proteggere e tesorizzare l’acqua delle rare piogge, prima che si disperda tra le ferite della pietra, e raccoglierla quando distilla come nella grotta dell’Arcangelo: acqua taumaturgica, unguento per le labbra arse e la pelle cotta al sole. Altra acqua si accumula durante la lunga stagione secca, quando l’umidità dell’aria si condensa nelle cisterne rifuggendo dal sole arido: insperata riserva, limpida e fresca.

Da questo silenzio ascetico ancora oggi possiamo levitare, sorvolan­do il poderoso acrocoro proteso nell’Adriatico verso la Terra Santa: è la vasta Montagna del sole, costellata dalla pietra consacrata dal sapien­te lavoro degli uomini. 

Abbazie torri castelli centri storici, cattedrali della natura, ne segnano la storia: possiamo ricostruirla attraverso i cammini millenari dei pellegrini; oppure osservando gli sfregi inferti a questa terra dura e fragile, i segni lasciati dai mutamenti del clima e il consumo del suolo. 
Molte, purtroppo, sono le cicatrici dovute alle smemorate ricchezze di chi, venuto dopo, ha pensato di godere della protezione eterna.

Da quassù gli abusi e i difetti sono tali che gli stessi rifiuti si con­fondono alle vite spezzate dei luoghi e delle persone.

Così, dal volo ascetico, riprecipitiamo in fondo alla valle, agli eremi, ove riproporre in silenzio la cura più efficace per far rinsavire i garganici e per lenire tali, crudeli, ferite.








LE DONNE DEL SUD 
NON SONO SOLO SOLE
(FATTE A MANO)
a Rosetta Pirro e a tutte le altre persone incontrate sul Gar­gano,
che amano e lavorano con passione per questo “ter­roir”;
tutt’altro da chi, con la presunzione di possederlo, lo trascura.


Con le porte sempre aperte, ovunque protette da una tenda pesan­te, le voci fuoriescono ovattate; una mano scosta la rete e appare a metà il bel viso e un bel seno.

Non mi chiede della presenza estranea, interroga senza parlare.
A quello sguardo rispondo: cosa sono gli spicchi rossi? Pomodorini spac­cati essiccati al sole, una parte della tela di Arcimboldo fatta di me­lanzane a fette, conserva essiccata di pomodoro, capperi, piante di basilico, prezzemolo, salvia e rosmarino, mazzetti di origano. Collane di carrube e variopinti pomodorini e peperoncini. Fichi e mandorle ad essiccare in cesti intrecciati di rami sottili; anche la pasta fatta a mano, piccole orecchiette di farina di grano duro, ingiallisce al sole.
Quei prodotti, sistemati con cura, sono il libro di ricette da sfogliare all’aperto.

Il giardino senza terra intorno lo aveva ereditato dai nonni; affidata alle loro cure i genitori erano andati ad arrugginire nei freddi turni nella fabbrica del nord. Il nonno in particolare si era adoperato per farla crescere, attento ad ogni sua richiesta: lei era il frutto più bello di quel giardino.
Tutte le mattine lui si recava a irrigare gli orti fiorenti e i giardini di arance con l’acqua della sorgente di cannella, facendola scorrere attraverso i formili in pietra. Era il suo lavoro, il solo inge­gnere di quei fontanili: l’acqua passava di pianta in pianta, di conca in conca, di terrazzo in terrazzo fino a “molino di mare”.

Sfogliando i ricordi della sua storia esce e porta un bicchiere di ac­qua ghiacciata con latte di mandorla, sul vassoio arricchito di variopin­ti frutti in miniatura: castagne, mandorle, noci, fichi d’india, ciliegie, tutti fatti di pasta di mandorla e decorati.
Li aveva visti creare dalle mani abili di sua nonna, ne conservava la ricetta solo ripetendo quei gesti premurosi. Gustoso ristoro in quel giardino: vasi di latta e di pla­stica, ciascuno con la propria pianta; persino la vigna di uva spina si fa pergola, trae linfa dalle pietre con le radici del tralcio.

Un leggero movimento dell’aria, al profumo di zagare rose gerani, di anice e basilico, in quel momento le spettina e le fa svolazzare l’abito leggero. Lo ferma imbarazzata con il braccio e quelle movenze graziose mi invitano a seguirla; senza dir nulla apre la porta accanto per farmi entrare nel suo laboratorio, fatto di ricordi e di arte.

Una grotta scavata nel calcare bianco, come la nicchia e la statua di San Michele con la spada, bianca di calce: qui la protezione dell’ar­cangelo abita ovunque sulle case. Quel santuario artigianale sapeva di pulito e di fresco, a prova di igiene di certi disciplinari. Nella penom­bra gli occhi luminosi illustravano le sue creazioni: un telaio di legno di castagno, armato di gomitoli e filati colorati con utensili di legno di ciliegio e radica di ulivo, riempiva lo spazio di mezza stanza.

Lo aveva costruito con il nonno anzi, ricostruito. I tessuti riposti ordinati uno sull’altro erano le trame variopinte delle sue storie, dei suoi desideri, raccontavano la sua vita. Nel suo regno era ancora più bella; non conoscevo il suo nome, la familiarità di quei momenti non prevedeva imbarazzanti presentazioni.

Oltre al suo laboratorio voleva farmi visitare quello della sua amica Rosetta Pirro, in un paese vicino, poco distante dal mare; visto l’inte­resse, mi affido a lei decidendo di andarci subito. Il breve tragitto è ammantato di mistero di racconti e magia a me sconosciuti, conservati nelle strofe cantate nelle calde serate, accompagnate con musiche e danze popolari.
Contaminazioni culturali affascinanti sopravvivono sul Gargano grazie all’eredità dei Cantori con la voce calda e innamorata di Antonio Piccininno, splendido novantenne capace ancora di incanta­re con la bellezza seducente.

In silenzio a lei dedico quel corteggiamento, bella, per niente tur­bata dall’avere i capelli ricci spettinati. Col breve viaggio, sospese tra il cielo e il mare, ci inoltriamo nei microcosmi della Montagna del Sole, definizione perfetta per un promontorio proteso verso l’oriente, specchiato nei due laghi di Lesina e Varano, due occhi di taglio diverso bagnati dal mare.

Sempre con più fascino usa le metafore delle Quattro stagioni del Gargano: immagini di mondi contadini che mutano dentro paesaggi na­turali; mi parla con familiare confidenza di Matteo Salvatore, un altro cantore di quelle bellezze e di quelle storie.
Tutte queste annotazioni rendono la geografia del Gargano romantica, s’inoltra nel dedalo di valloni che penetrano il massiccio montuoso, anche dal mare; sono uni­ci gli scenari nel fondo valle del torrente Romondato dove, cosa rara d’estate, una piccola sorgente sgorga tra noduli di selce.

Ci si va per sfuggire alla calura o cercar funghi, verso la Fulecara faggeta depressa fresca e rigogliosa. Resto affascinata da quella sua straordinaria conoscenza di luoghi e di ambienti, così minuziosamente descritti.
Le chiedo se le piacerebbe accompagnarmi, avremmo potuto visitare il canale il giorno successivo.

Il viaggio di quel giorno si ferma all’ingresso del centro storico: noi dobbiamo seguire per il rione Terra, appunto. La strada conduce alla casa-laboratorio della sua amica. Oltre il portone di legno, aperto anche di notte, la porta a vetri con due tendine stile provenzale dava l’ingresso a una fiaba.
Alambicchi di vetro e rame per i rosolii, ciotole con canditi di bucce d’arancia e cioccolato, mandorle tostate e pesta­te, zucchero caramellato e farina sui fornelli e la cucina, gusci d’uovo aperti sul ripiano di marmo.

Dolci sospiri della sposa davano il ben­venuto in quella che diventa un’altra storia, fatta di donne un tempo sole, di carezze e di dolcezze, di cura.



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