a cura di Angela Cassano
Risale a tempi molto lontani dai nostri, ad uno scenario in cui la Natura, ancora poco tranquilla e poco domata, si contrapponeva ad un’ uomo impaurito, bisognoso di protezione e in preda all’incertezza, a quando non erano ancora stabili le condizioni per lo sviluppo agricolo.
Intorno al Neolitico ma, sicuramente ancor prima, l’Europa settentrionale era
interessata da una civiltà che aveva stabilito collegamenti intimi ed
equilibrati con il proprio ambiente.
I miti, di cui restano
le tracce nell’immaginario collettivo, descritti nelle letterature meridionali
e del bacino del mar Mediterraneo, confermano che prima dell’ultima glaciazione, si era consolidato un collegamento uomo-ambiente-natura
di sicuro stampo femminile, rapporto paragonabile al modello materno generatore-riproduttore.
Il culto degli
alberi, per esempio molto diffuso e praticato in tutto il vecchio continente,
dimostra che i boschi e le selve erano ritenuti, dalle prime popolazioni, dei
veri edifici di culto e probabilmente la sensazione di stabilità, di
maestosità, di potenza e di vetusta, contribuì a sviluppare la sacralità dei
boschi e a definire meglio quella materia sacra che si diversificava dalla
restante profana.
Per i primitivi tutto possedeva un’anima e non solo gli alberi, ma anche oggetti e ogni quant’altro contribuisce a formare un ordine che rimanda ad una forza trascendente.
Comprendiamo oggi
come le foreste siano giunte protette e quasi indenni fino al disboscamento
violento avvenuto in Europa tra il XVII-XVIII secolo e come le stesse abbiano
conservato indenni, ecosistemi e resti di antica civiltà.
Fra gli antichi
romani il culto degli alberi sacri era molto forte che, per esempio, quello del
sacro fico di Romolo, era il centro di tutti gli affari dell’Urbe; infatti
quando l’albero languiva, la città cadeva nella costernazione più
completa.
Naturalmente non c’è stata sempre una venerazione ossequiosa verso l’albero, se necessario veniva tagliato, ma prima di compiere questo atto occorreva dolersi e far comprendere alla pianta la necessità di tale operazione.
Questi atti erano spesso mimati dagli sciamani che piangevano ed emettevano striduli e lamenti quasi a mimare le urla dei colpi inferti.
Anche gli alberi
muoiono o sono mandati a morte, si tratta insomma dell’antico ciclo della vita
e della morte, che in maniera simile era rappresentato nelle colture agricole;
Come nelle abitudini diffuse nell’Italia Meridionale nell’accendere dei falò
con i resti della potatura di rami d’olivo o d’altro arbusto locale, che
vengono ancora oggi arsi nel giorno della festa di San Giuseppe, per indicare
il passaggio dall’inverno alla primavera.
I resti della
potatura d’olivo, classico albero sacro nella cultura meridionale,
contribuiscono a consolidare l’idea del rinnovamento della vita; rito
tipicamente di origine pagana ma modificato e ripreso in epoche successive
dalla liturgia cristiana.
I nostri antenati quindi praticavano il rito del falò per rafforzare il senso del risveglio vegetativo, dell’uccidere in un auspicio di rinnovamento… era quindi momento di intenso dolore, volto al rispetto per la Natura.
Approfittiamo
quindi, il 19 Marzo, festa di San Giuseppe Artigiano, giornata ormai di festa,
per non sottovalutare l’anima della natura, che in quest’ultimo periodo
ci sta sconvolgendo, forse perché intende riprendersi il rispetto e l’amore che
un tempo le veniva donato.
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La parola Fanoja deriva dal verbo greco faino-fainomai
ovvero apparisco, mi faccio vedere; sostantivo: fanos, ovvero fanoia,
falò, fuoco, rogo: luce che si fa
vedere.
La festa in onore
di San Giuseppe Artigiano è molto sentita dal popolo garganico.
La preparazione dei falò (fanoje) avviene alcune settimane prima con la raccolta della legna.
I primi ad organizzarsi sono proprio i più piccini che con mezzi di fortuna costruiti per l’evento, raccolgono tutto ciò che reputano combustibile…
I più grandi
invece, con l’esperienza accumulata negli anni, si organizzano nei propri
quartieri preparando fanoje di anno in anno sempre più maestose.
Questa festa è sempre accompagnata da musica popolare, piatti tipici e dell’ottimo vino.
Quando la legna è ormai arsa, i più temerari restano accanto alla brace strimpellando chitarre e tammorre in attesa del nuovo giorno.
Molti sono i
comuni del Gargano che festeggiano in questo giorno, come San Marco in Lamis,
Rignano Garganico, Monte Sant’Angelo, Vieste, San Giovanni Rotondo.
Proprio qui a
San Giovanni Rotondo è ormai viva da decenni la famosa “Fanoja del Mulino” nel cuore del centro
storico, dove è possibile degustare piatti tipici come il pancotto, zuppa di
fagioli, fave con la cicorietta selvatica, lampascioni arrosto, pizze fritte,
chiacchiere, zeppole di San Giuseppe e vino a volontà… tutto questo è
contornato dai cantori del posto che animano a ritmo di tarantella garganica
la festa, fino al mattino…
Garganistan ® 2011
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